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La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sugli obblighi dello Stato a tutela del diritto alla vita nell’ambito delle operazioni di salvataggio in mare

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Safi & altri c. Grecia, ricorso n. 5418/15, sentenza del 7 luglio 2022.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha pronunciato la sentenza definitiva sul caso Safi & altri c. Grecia. La decisione ha concluso l’iter giudiziario iniziato nel 2014 dinanzi a varie giurisdizioni greche a seguito dell’operazione di soccorso della guardia costiera ellenica nei confronti di un peschereccio, battente bandiera turca, con a bordo 27 migranti, 11 dei quali deceduti durante lo svolgimento dell’operazione.

Dunque, le autorità greche hanno avviato delle indagini per chiarire le circostanze nelle quali fosse avvenuto il naufragio e il decesso di queste persone, tra cui figuravano parenti dei ricorrenti dinanzi alla Corte EDU. In parallelo, sono state disposte anche indagini per il presunto trattamento inumano a danno dei superstiti, sottoposti a perquisizioni corporali una volta sbarcati sulla terra ferma.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata adita per valutare l’osservanza, da parte delle autorità greche, della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), precisamente degli artt. 2-3 CEDU, rispettivamente alle indagini, alle circostanze del naufragio e alle perquisizioni.

In primo luogo, la Corte ha considerato la dimensione procedurale dell’art. 2 CEDU per valutare se le indagini disposte sull’operazione e sulla morte di alcuni migranti potessero configurare uno strumento giuridico effettivo, in grado di accertare i fatti, obbligare i responsabili a risponderne, e fornire un’adeguata riparazione. La Corte ha riconosciuto una violazione della Convenzione in ragione dell’inidoneità dei procedimenti interni a garantire un’indagine effettiva, e dunque a definire le responsabilità del caso, vista l’imprecisione nell’interpretazione delle dichiarazioni dei ricorrenti, e la mancata condivisione tempestiva del fascicolo con gli stessi.

In secondo luogo, la Corte ha valutato l’operazione di soccorso in mare, il cui obbligo è sancito dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM), in relazione alla dimensione sostanziale dell’art. 2 CEDU, nello specifico, l’obbligo della Parte Contraente di adottare tutte le misure necessarie a proteggere la vita delle persone sotto la propria giurisdizione. I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la discrezionalità delle autorità nel prendere decisioni operative, ma chiarendo che questa dovesse esser comunque ispirata dallo sforzo prioritario di tutelare il diritto alla vita dei migranti. Ancora, la Corte EDU ha precisato che il soccorso dei naufraghi è un obbligo di mezzi e non di risultato, il quale è soddisfatto anche laddove le autorità nazionali non riescano a salvare tutte le persone soccorse, purché esercitino la dovuta diligenza, da valutare alla luce delle circostanze del caso concreto. Avrebbe infatti costituito un onere successivo per la Grecia garantire un livello assoluto di sicurezza. Nel merito dello svolgimento della missione, però, ha rilevato omissioni e ritardi ingiustificati della Guardia Costiera greca, deducendo che questa non avesse fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente aspettare per fornire il livello di protezione richiesto.

In terzo luogo, i giudici di Strasburgo hanno considerato le perquisizioni corporali sui migranti come trattamenti inumani per, in violazione del divieto ex art. 3 CEDU. La Corte ha rilevato l’integrazione della categoria di “trattamenti inumani”, poiché, a seguito della situazione di estrema vulnerabilità dei ricorrenti, i destinatari delle perquisizioni corporali hanno subito un grado di umiliazione superiore a quello derivante da una misura legittima di privazione della libertà.

[Antonio Attolico]

    Corte di Giustizia dell’Unione europea, cause riunite C-14/21 e C-15/21 | Sea Watch, 1° agosto 2022

    La Sea Watch, ONG con sede a Berlino, svolge attività di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo, mediante – tra le altre imbarcazioni di cui è proprietaria e gestore – le navi da carico, battenti bandiera tedesca, Sea Watch 3 e Sea Watch 4. Nell’estate del 2020, le due navi hanno effettuato operazioni di soccorso in mare, sbarcando le persone salavate nei porti di Palermo e Porto Empedocle, le cui capitanerie di porto hanno poi svolto ispezioni sulle due imbarcazioni, a motivo della qualifica di navi da carico e dell’elevato numero di persone imbarcate, superiore a quello autorizzato. Le capitanerie hanno altresì riscontrato carenze tecniche ed operative tali da comportare un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente. Per tali ragioni, richiedevano il fermo delle navi.

    La Sea Watch ha quindi proposto due ricorsi dinanzi al TAR Sicilia, chiedendo l’annullamento dei provvedimenti di fermo delle due navi, dei verbali di ispezione che hanno preceduto tali provvedimenti, e di «ogni altro atto presupposto, connesso o conseguente». A sostegno dei ricorsi, la ONG affermava, tra le altre censure addotte, che le capitanerie avrebbero violato i poteri dello Stato di approdo, quali risulterebbero dalla Direttiva 2009/16/CE interpretata alla luce del diritto internazionale consuetudinario e convenzionale applicabile. Le incertezze relative al regime giuridico applicabile per la risoluzione delle controversie hanno spinto il TAR Sicilia ha proposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) talune questioni pregiudiziali, allo scopo di chiarire l’estensione dei poteri di controllo e di fermo dello Stato di approdo sulle navi gestite da ONG.

    La CGUE innanzitutto dichiara che la Direttiva 2009/16/CE “è applicabile a qualsiasi nave che […] si trovi in un porto, in un ancoraggio o nelle acque soggetti alla giurisdizione di uno Stato membro e batta bandiera di un altro Stato membro o di uno Stato terzo” (para. 77), comprese le navi delle ONG che, nonostante siano classificate e certificate come navi da cargo da parte dello Stato di bandiera, svolgono sistematicamente attività non commerciale di ricerca e soccorso in mare (para. 74 e 80).

    La Corte prosegue sottolineando che la Direttiva 2009/16/CE, tra i cui scopi vi è migliorare “l’osservanza della legislazione internazionale […] in materia di sicurezza marittima, tutela dell’ambiente marino e condizioni di vita e di lavoro” (art. 1, lett a)), va interpretata alla luce del suo obiettivo e del suo contenuto, tenendo conto della Convenzione UNCLOS, conclusa dall’UE e, quindi, vincolante per la stessa, e della Convenzione SOLAS (elencata nell’art. 2 della Direttiva) (para. 89, 93-94). La Convenzione UNCLOS sancisce, tra gli altri, l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare (art. 98), integrato dalle disposizioni della Convenzione SOLAS, secondo cui le persone che si trovano, a seguito di un’operazione di soccorso in mare, a bordo di una nave, non devono essere computate in sede di verifica del rispetto delle norme di sicurezza in mare (art. IV, lett. b)). Tale disposizione si applica anche alle imbarcazioni delle ONG come la Sea Watch.

    Il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore rispetto alle capacità quali risultanti dalle loro classificazioni e certificazioni, non può dunque costituire, di per sé solo e in assenza di qualsiasi altra circostanza, una ragione che giustifichi un’ispezione supplementare. Una siffatta interpretazione dei poteri di controllo, come riconosciuti dalla Direttiva 2009/16/CE, contrasterebbe con le disposizioni della Convenzione UNCLOS, in quanto “sarebbe idonea ad ostacolare l’attuazione effettiva dell’obbligo di soccorso marittimo sancito dall’articolo 98”, e non sarebbe conforme all’articolo IV, lett. b), della Convenzione SOLAS (para. 117-118).

    Lo Stato di approdo, però, può sottoporre ad ispezione supplementare le navi di ONG che effettuano ricerca e soccorso in mare e che si trovano in uno dei suoi porti o in acque soggette alla sua giurisdizione, dopo che esse sono entrate in tali acque e dopo che sono state completate tutte le operazioni di trasbordo o di sbarco delle persone soccorse, qualora tale Stato abbia accertato l’esistenza di indizi seri in grado di dimostrare l’esistenza di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente, alla luce delle prescrizioni pertinenti di diritto internazionale e di diritto dell’Unione, tenuto conto delle condizioni in cui si è svolta la gestione di cui trattasi. La decisone deve essere motivata e, nel merito, giustificata sia in diritto sia in fatto (para. 119-120). Una simile interpretazione è coerente con le disposizioni della Convenzione SOLAS (para. 122-124).

    Ancora, la CGUE ha chiarito che, in occasione di ispezioni dettagliate (art. 13 della direttiva), lo Stato di approdo può tenere conto, tra i vari fattori, “l’attività per la quale la nave interessata viene utilizzata in pratica, l’eventuale differenza tra tale attività e quella per la quale tale nave è stata certificata ed equipaggiata, la frequenza con cui è svolta detta attività e le conseguenze che ne derivano in ordine alle condizioni di gestione della nave, alla luce, in particolare, della dotazione di cui è provvista quest’ultima” (para. 134). Quindi, lo Stato di approdo può tenere conto del fatto che navi classificate e certificate come navi da carico da parte dello Stato di bandiera sono, in pratica, utilizzate per un’attività sistematica di ricerca e soccorso in mare. Tuttavia, lo Stato di approdo ha l’obbligo di addurre “elementi giuridici e fattuali circostanziati idonei a dimostrare le ragioni per le quali tale circostanza comporta, da sola o con altri elementi, un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente” tali da giustificare un’ispezione dettagliata (para. 135). Tale interpretazione è conforme alle norme di diritto internazionale che disciplinano il riparto di competenze tra tale Stato e lo Stato di bandiera (137). Al contrario, la richiesta, da parte dello Stato di approdo, che le navi sottoposte a ispezione dettagliata “dispongano di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che rispettino tutte le prescrizioni applicabili alle navi rientranti in una diversa classificazione” sarebbe contrario sia alla direttiva 2009/16/CE, sia alle norme di diritto internazionale sul riparto di competenze tra Stato di bandiera e Stato di approdo, dato che una simile imposizione costituirebbe un’ingerenza nelle competenza dello Stato di bandiera in materia di concessione della propria nazionalità alle navi, nonché di classificazione e di certificazione di queste ultime (para. 138).

    La CGUE, poi, si esprime sulla competenza dello Stato di approdo sia di adottare azioni correttive nel caso in cui un’ispezione rilevi carenze sia di disporre il fermo della nave laddove tali carenze rappresentino un pericolo per la sicurezza, la salute, e l’ambiente (art. 19 della direttiva). La Corte chiarisce le misure in materia di sicurezza, prevenzione dell’inquinamento, di condizioni di vita e di lavoro a bordo, indicate dallo Stato di approdo, devono essere idonee e necessarie a correggere le carenze riscontrate, nonché proporzionate al tal fine (para. 142-143, 152-153). Sul secondo aspetto, la CGUE afferma che lo Stato di approdo non può subordinare il mancato fermo delle navi, o la revoca di siffatto fermo, alla condizione che l’imbarcazione disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o l’osservanza di tutte le prescrizioni applicabili alle navi rientranti in una classificazione diversa dalla propria, in linea con la disciplina dell’ispezione dettagliata (para. 150-151).

    Infine, la Corte sottolinea il dovere di leale collaborazione tra lo Stato di approdo e quello di bandiera, ricavabile sia dalle disposizioni della direttiva 2009/16/CE che dalle norme di dritto internazionale alla luce delle quali tali disposizioni devono essere interpretate. In materia di azioni correttive, tale principio si applica indipendentemente dalla questione se lo Stato di bandiera sia uno Stato membro dell’UE o uno Stato terzo (para. 154-155). Con riferimento al fermo, invece, il dovere di leale collaborazione ex art. 4(3) TUE impone agli stati di rispettarsi, concertarsi, e assistersi nell’esercizio dei propri poteri di controllo (para. 156-157).

    [Giulia Ciliberto]

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      Corte di Cassazione, Il sistema di protezione internazionale per i cittadini ucraini anche alla luce dei nuovi interventi normativi (Relazione n. 36, 12 aprile 2022)

      La Corte di Cassazione ha recentemente pubblicato una relazione che approfondisce le forme di protezione di cui possono essere beneficiari i cittadini ucraini e le altre persone in fuga dall’Ucraina, in quella che è stata definita, dalla portavoce dell’UNHCR, la “più grande crisi di rifugiati in Europa di questo secolo” (qui).

      Lo studio, innanzitutto, ricostruisce il regime normativo della protezione temporanea ai sensi del diritto primario e secondario dell’UE (in particolare, v. Direttiva 2001/55/CE del Consiglio), il quale disciplina anche il rapporto tra questo istituto e l’accesso alle procedure in materia di asilo, e la sua trasposizione nell’ordinamento italiano (D. Lgs. n. 85 del 7 aprile 2003). La relazione prosegue poi delineando le fasi dell’introduzione della protezione temporanea nel contesto dell’operazione militare russa in Ucraina, con particolare riferimento alla sua attivazione tramite decisione del Consiglio dell’UE  (Decisione di esecuzione UE 2022/382 del 4 marzo 2022) ed attuazione, sul piano interno, ad opera del D.P.C.M. del 28 marzo 2022.

      Oltre a delineare la natura e il contenuto della protezione temporanea, nonché a chiarire ulteriormente il rapporto tra quest’ultima e le altre forme di protezione internazionale e complementare, la relazione analizza l’introduzione, nell’ordinamento italiano, della nozione di “Paese di origine sicuro” (legge n. 132 del 1° dicembre 2018), facoltà prevista dalla cd. Direttiva Procedure (Direttiva 2013/32/UE), e la sospensione temporanea degli effetti della designazione di paese di origine sicuro nei confronti dell’Ucraina (Decreto del Ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, 9 marzo 2022), evidenziando come tale sospensione non sia prevista dalla normativa di riferimento, atteso che quest’ultima disciplina solo la possibilità di revisione dell’elenco dei Paesi di origine sicuri.

      Il docuemento tiene altresì conto della possibilità di riconoscere lo status di rifugiato o la protezione internazionale con riferimento a due specifiche situazioni che potrebbero presentarsi in relazione al conflitto in corso. Con riguardo allo status di rifugiato, la Corte di Cassazione si è concentrata sulle domande alla cui base i richiedenti potrebbero porre l’obbligo di reclutamento e servizio militare, nonché altri obblighi sanciti dalle disposizioni in materia di “mobilitazione generale della popolazione”, introdotte in Ucraina da recenti modifiche normative. A tal proposito, la Corte di Cassazione richiama la propria giurisprudenza in tema di presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato nel caso in cui il richiedente sia un obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine, tra cui rileva anche il regime sanzionatorio applicabile al renitente alla leva – previsto, per quanto interessa, anche dal codice penale ucraino. A proposito della protezione sussidiaria, la Corte di Cassazione si limita a richiamarne gli aspetti principali, in considerazione del “presumibile aumento dei casi di riconoscimento di tale forma di protezione” in ragione delle dimensioni e delle caratteristiche del conflitto in Ucraina e della possibilità che queste integrino una situazione di “violenza generalizzata”.

      [Giulia Ciliberto]

        Corte di Cassazione (Sez. VI Penale), sentenza n. 15869/22 del 16 dicembre 2021, depositata il 26 aprile 2022

        La Corte di Cassazione, con una sentenza di annullamento senza rinvio, pone fine alle vicende processuali relative agli eventi avvenuti nel luglio 2018 sul rimorchiatore Vos Thalassa, “spin-off” del ben noto caso Diciotti, che vede a tutt’oggi imputato per sequestro di persona aggravato l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini.

        A seguito del soccorso di 67 migranti in acque internazionali, la Vos Thalassa, da inizio diretta verso l’Italia, virò verso le coste libiche. Accortisi del mutamento di rotta, alcuni dei migranti soccorsi minacciarono l’equipaggio, che, a fronte di tali atteggiamenti aggressivi, ritornò a navigare verso l’Italia. Durante la traversata, i migranti furono trasbordati sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, la quale, giunta al porto di Catania, ricevette l’ordine di non far sbarcare i migranti i quali, da ultimo, scesero dall’imbarcazione cinque giorni dopo.

        Il Tribunale di Trapani (GIP, sent. 23 maggio 2019, dep. 3 giugno 2019), investito della vicenda, assolse i due migranti a cui furono imputati il capo di accusa di minaccia e violenza contro pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) e resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), nonché la violazione delle disposizioni in materia di immigrazione clandestina (art. 12, co. 2 e co. 3-bis, d.lgs, 286/1998, cd. TU Immigrazione). In particolare, il giudice di primo grado, rispetto al primo capo, ritenne integrati gli elementi costitutivi della fattispecie penale, alla quale però andava applicata la scriminate della legittima difesa (art. 52 c.p.), concludendo, quindi, che i fatti non costituirono reato.

        La sentenza fu successivamente riformata dalla Corte di Appello di Palermo (Sez. IV Penale, sentenza n. 1525/2020 del 3 giugno 2020, dep. 24 giugno 2020), la cui pronuncia è stata, per l’appunto, annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione (Sez. VI Penale, sent n. 15869/22 del 16 dicembre 2021, dep. 26 aprile 2022).

        La Corte di Cassazione ha fondato le proprie conclusioni sulla ricostruzione del regime di diritto internazionale del mare – riferendosi tanto a fonti pattizie vincolanti, come le Convenzioni SAR, UNCLOS e SOLAS, quanto a strumenti di soft-law, come le linee guida dell’OIM – e dei diritti umani, con particolare attenzione all’evoluzione del principio di non refoulement, da disposizione in materia di tutela dei rifugiati, soggetta a limitazioni, a norma imperativa di diritto internazionale, dall’applicazione universale, non limitata ratione personae ai soli richiedenti asilo o titolari di forme di protezione. Anche la ricostruzione della portata e della natura del principio di non respingimento è stata supportata dall’esame non solo di fonti pattizie vincolanti, ma anche dell’interpretazione che di queste sono state fornite dai competenti meccanismi di controllo – tra tutti, la Corte europea dei diritti dell’uomo e il Comitato ONU sui diritti umani.

        La Corte di Cassazione, inoltre, ribadisce quanto già statuito dal Tribunale di Trapani: all’epoca dei fatti, la Libia non poteva essere considerato un Paese sicuro ai fini del respingimento dei migranti (situazione “nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti”) e l’esistenza di un pericolo “reale ed attuale di un’offesa ingiusta”, ossia il rischio di subire tortura, trattamenti inumani e degradanti, lesioni all’integrità fisica e sessuale, rispondeva ai requisiti di necessità e proporzionalità, stante l’assenza di condotte alternative volte a scongiurare tale pericolo e la natura dei diritti e beni in pericolo.

          Consiglio dell’Unione europea, decisione di esecuzione (UE) 2022/382 del 4 marzo 2022

          Su proposta della Commissione europea, il 4 marzo 2022 il Consiglio dell’Unione europea ha adottato una decisione di esecuzione con cui accerta l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati dall’Ucraina, che ha come effetto l’introduzione di una protezione temporanea di un anno (eventualmente prorogabile) ai sensi della Direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001 sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi. Si tratta della prima attivazione della protezione temporanea ai sensi della Direttiva 2001/55/CE, introdotta proprio per consentire di gestire situazioni emergenziali di afflusso massiccio di persone da Paesi non membri dell’Ue evitando, al contempo, di sottoporre i sistemi nazionali di asilo degli Stati membri ad una pressione eccessiva.

          Clicca qui per scaricare la decisione del Consiglio dell’Unione europea: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32022D0382&from=EN

            La Corte costituzionale si esprime sull’esclusione dal reddito di cittadinanza degli stranieri non titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo

            Sentenza n. 19 del 25 gennaio 2022

             Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lett. a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, richiede agli stranieri il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

            Con la sentenza n. 19/2022, la Corte costituzionale si esprime su un primo ordine di questioni e su una seconda questione sollevata in via subordinata.

            In primo luogo, la norma censurata sarebbe costituzionalmente illegittima nella parte in cui esclude dalla prestazione del reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. n. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41 d.lgs. n. 286/1998, per violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione (anche nelle specifiche forme della tutela della famiglia e del lavoro ex artt. 31 e 38 Cost.), nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in tema di principi di eguaglianza e di non discriminazione, in quanto, costituendo il reddito di cittadinanza una prestazione essenziale diretta a soddisfare bisogni primari della persona umana, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nella sua concessione sarebbe costituzionalmente illegittima.

            Con la seconda censura il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse ritenuto prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali della persona, non esisterebbe una ragionevole correlazione tra il requisito e le situazioni di bisogno per le quali la prestazione è prevista.

            La Corte costituzionale ritiene non fondata la questione sollevata con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.

            La Corte ribadisce che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4/2019). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni.

            Secondo la Corte, la conclusione di non fondatezza così raggiunta non esclude che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 38, primo comma, Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla «sopravvivenza dignitosa» e al «minimo vitale». Nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito può tuttavia legittimare a intervenire «convertendo» verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale una più complessa misura, come quella oggetto del giudizio, cui il legislatore ha assegnato finalità prevalentemente diverse, e rispetto alla quale il contestato requisito del permesso di lungo periodo non risulta irragionevole.

            La Corte costituzionale ritiene non fondata anche la questione sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

             L’art. 14 CEDU («Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione») costituisce completamento di altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e può essere invocato solo in collegamento con una di esse. Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU cui l’art. 14 si collega nel caso di specie, ma (richiamando la sentenza n. 187/2010 di questa Corte, che ha accolto una questione sollevata, in riferimento all’art. 117 primo comma, in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sull’art. 80, comma 19, della legge n. 388/2000) implicitamente invoca l’art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione della proprietà. E, poiché il d.l. n. 4/2019, come convertito, prevede un diritto al reddito di cittadinanza (che è riconosciuto dall’INPS ove ricorrano le condizioni, in base al suo art. 5, comma 3, ma la cui erogazione è poi subordinata all’adesione al percorso personalizzato, come previsto all’art. 4, comma 1), non impropriamente il giudice a quo ha invocato il parametro convenzionale.

            La Corte si è già pronunciata, in più occasioni, sulla conformità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388/2000 (là dove subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno) all’art. 14 CEDU. In particolare, si è osservato che ciò che assume valore dirimente è accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico «assegno» che viene in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei «bisogni primari» inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto. Sicché ove si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al «sostentamento» della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo.

            In questa prospettiva, le conclusioni sulle caratteristiche del reddito di cittadinanza (che non si esaurisce in una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue più ampi obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale) conducono a ritenere non fondata anche la questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

            Infine, la Corte costituzionale ritiene non fondata la questione sollevata in via subordinata, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.

            Il giudice a quo ritiene che, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse ritenuto prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali della persona, la disposizione censurata sarebbe comunque illegittima per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.

            Nemmeno tale questione è fondata, giacché il raffronto fra il requisito prescritto e le finalità perseguite dalla misura non conduce a conclusioni di irragionevolezza della scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.

            Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che testimoniano la relativa stabilità della presenza sul territorio, e il suo regime si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante. Più precisamente, in base all’art. 9, commi 1 e 2-bis, d.lgs. n. 286/1998, esso può essere chiesto in presenza di quattro requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana». Il permesso è a tempo indeterminato e fra le cause della sua revoca non è prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioè, del reddito e dell’alloggio idoneo).

            Ciò precisato, occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di cittadinanza. Come già sottolineato, tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale. Va considerato inoltre che la durata del beneficio economico è di diciotto mesi (permanendo i requisiti), con possibilità di rinnovo.

            L’orizzonte temporale della misura non è dunque di breve periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza.

            [Stefano Tatti]

            bandiera europea

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